Illustrazione: Berthier e Bonaparte a Marengo
Louis-Alexandre Berthier nacque il 20 novembre 1753 a Versailles. Si dedicò molto presto ad una carriera militare. Nella guerra d’indipendenza americana fu colonnello. Con Bonaparte divenne generale, poi ministro della guerra. Nel 1804 fu maresciallo di Francia, principe di Neuchâtel nel 1806 e di Wagram nel 1809.
Berthier partecipò a tutte le campagne dell’Impero. Indispensabile all’Imperatore in Russia, in Germania, in Francia, trasmette i suoi ordini, vigila sulla loro corretta esecuzione, sorveglia il rifornimento e i servizi annessi, raccoglie le informazioni, riorganizza completamente il servizio dello stato maggiore…
Poco prima di Waterloo, si ritirò nella sua famiglia a Bamberga, morì defenestrato (incidente o suicidio?) il 1º giugno 1815. Napoleone dirà del suo amico fedele “Nessun altro avrebbe potuto sostituirlo.”
- Leggiamo qui, scritto da Marco de Saint-Hilaire, in “Aneddoti del tempo di Napoleone I”, un episodio meno noto della vita di Berthier:
A Vienna, quando tutte le cerimonie d’etichetta della consegna della figlia di Francesco II al principe di Wagram, fondato di potere di Napoleone, furono terminate, ci si occupò della partenza della giovane arciduchessa. Per tutto il tempo della durata dei preparativi, Maria Luisa non fece che piangere, pensando che sarebbe stata separata dalla sua famiglia.
Cresciuta nei principi di Maria Teresa, la figlia di Francesco II piangeva al pensiero non solo di lasciare le sue sorelle, i suoi fratelli, suo padre, forse anche sua suocera, ma anche di essere costretta a vivere con un uomo che non conosceva e che per lei non doveva essere che un oggetto di terrore, poiché i suoi zii non avevano cessato di ripeterle che Napoleone aveva tentato due volte di distruggere la loro casa.
Tuttavia, il giorno fissato per la partenza arrivò. Maria Luisa, dopo aver ricevuto gli addii della sua famiglia, si ritirò nel suo appartamento per piangere in attesa di Berthier che, secondo il cerimoniale prescritto, doveva accompagnarla alla macchina.
Quando fu introdotto nel gabinetto della sua nuova sovrana, la trovò in lacrime. Infine, dopo un momento di silenzio, gli disse con voce spezzata dai singhiozzi: Principe, il mio dolore non è scusabile? Guardatemi intorno, sono circondata qui solo da cose che mi sono care e preziose: questi disegni sono delle mie sorelle, questa scatola d’avorio è opera di mio fratello Ferdinando, mio zio Charles ha dipinto questo quadro e questo cuscino da tappezzeria mi fu dato da mia madre, che lo ricamò con le sue mani.
Mentre Maria Luisa continuava con questo tono l’inventario del suo gabinetto, venne il turno dei fiori artificiali in magnifici vasi di porcellana sassone, degli uccelli d’America, imprigionati in una voliera a reti d’argento, pappagallo sul suo bastone di mogano, ecc.
Ma, di tutta la collezione, il pezzo più importante e più rimpianto era un piccolo spaniel a pelo lungo, di pura razza inglese, che da solo faceva più rumore del pappagallo nella sua chiacchierata austro-russa.
Nel palazzo non si era lasciato ignorare alla giovane arciduchessa quanto i piccoli cani dell’imperatrice Giuseppina avessero dispiaciuto Napoleone. Così, da padre prudente, Francesco II aveva avvertito la figlia che avrebbe dovuto lasciare a Vienna il suo cane, il suo pappagallo e non portare con sé a Parigi nessuna delle belle bestie che amava tanto.
Certamente c’era nei rimpianti della giovane arciduchessa una prova di bontà di cuore che Berthier comprese perfettamente. Vedendo un simile dolore là dove si aspettava di trovare solo gioia, disse alla sua nuova sovrana: Signora, io invece venivo ad avvertire Vostra Maestà che non potrà mettersi in cammino che tra due ore e di conseguenza le chiedo il permesso di lasciarla fino al momento della sua partenza. Poi, ritiratosi, il principe di Neufchâtel andò dall’imperatore d’Austria, al quale affidò il piano che aveva concepito. Francesco II comprese ciò che gli era stato chiesto e diede ordini di conseguenza.
Infine, la giovane imperatrice lasciò Vienna e presto arrivò in Francia. Le feste che l’accompagnarono per tutta la sua strada cominciarono a farle dimenticare un po’ lo spaniel e il pappagallo che aveva tanto rimpianto. La sua auto fu fermata a qualche miglio da Compiègne; Napoleone vi salì e prese posto accanto a quella che era ancora la sua fidanzata. Arrivato a Parigi, l’Imperatore che prese la mano di questa giovane donna che credeva fosse un pegno di pace e di eterna alleanza, attraversò, in presenza di “Viva l’Imperatore” e di “Viva Maria Luisa!”.
Allora l’imperatrice dimenticò completamente il suo piccolo serraglio di Vienna, in mezzo agli inebriamenti di questa gloriosa felicità. Poi il giorno seguente, al balcone del padiglione dell’Orologio delle Tuileries, Napoleone presentò lui stesso sua moglie ai parigini, e, come il giorno prima, centomila voci gridarono: “Viva l’Imperatore! Viva Maria Luisa!”. Quanto a lui, con il cuore ubriaco di gioia, non poteva rispondere alla folla che con saluti.
Quando si ritirò, disse a sua moglie, con le lacrime agli occhi: Vieni, mia buona Louise, che ti pago con tutta la felicità che mi hai dato. La condusse attraverso uno di quegli oscuri corridoi del palazzo, che anche di giorno erano costantemente illuminati da lampade, e la fece camminare a grandi passi.
“Sire, dove mi state portando? -chiese la giovane donna- ho paura qui”, aggiunse stringendo il braccio di Napoleone. Vieni sempre, ti dico; hai qualcosa da temere con me? Improvvisamente l’Imperatore si ferma davanti a una porta chiusa.
“Louise, ascolta!” Disse lui stesso prestando l’orecchio. Subito un cane si fa sentire. L’animale aveva sentito che si erano avvicinati e con le sue zampe grattava dall’altro lato della porta. Napoleone la aprì e spinse delicatamente Maria Luisa in una stanza molto illuminata, dove lo splendore del giorno impedì a quest’ultima di distinguere ciò che si offrì alla sua vista. Presto gli oggetti diventarono più distinti.
Allora un delizioso fremito, causato dalla sorpresa, agitò la giovane donna. Volle parlare, ma non fece altro che appoggiare la testa, piangendo, sul petto di Napoleone.
In questa stanza, Maria Luisa, imperatrice e regina, sazia, per così dire, delle pompe trionfali che aveva condiviso con suo marito, il più potente sovrano del mondo, ritrovava improvvisamente, grazie a lui, queste gioie dell’infanzia. Questi ricordi della patria che aveva tanto rimpianto pochi giorni prima. Oltre al suo cane, il suo pappagallo e i suoi uccelli, questa stanza conteneva, disposti nello stesso ordine di Vienna, tutti gli oggetti che vi aveva lasciato, tutto, fino alla scatola d’avorio modellata da suo fratello, fino al piccolo cuscino che sua madre le aveva dato.
Quando si riprese da un’emozione così dolce, Napoleone le disse: Sei contenta, mia buona Louise? Beh! Anch’io e credo che in questo momento riceverei con indifferenza la notizia di una vittoria.
L’imperatrice percorreva con piacere questo gabinetto, mentre i suoi uccelli cinguettavano nella loro voliera, il suo pappagallo si agitava sul suo bastone e il suo cane piangeva di gioia. La povera piccola bestia sembrava temere di avvicinarsi alla sua vecchia padrona. Allora Napoleone chiamò lo spaniel e lo accarezzò. Tuttavia il pappagallo rimase muto, contro l’abitudine degli uccelli della sua specie rumorosa.
“Onorevole Jacquot, mi fa sentire un po’ stupido” disse ridendo Napoleone. “Sono malato!” All’improvviso, il pappagallo rispose con una voce gutturale e un’aria pietosa. A queste parole, Napoleone lasciò sfuggire una risata omerica. Quando l’allegria passò, chiese all’imperatrice quale fosse stato il precettore di questo pappagallo a Vienna. Lei rispose, sorridendo, che la sua educazione era stata un po’ trascurata. “Sire – aggiunse – c’era solo M. de Metternich che le parlava francese e purtroppo non ha potuto insegnare altro che questa sola frase che pronuncia molto bene, come ha appena giudicato Vostra Maestà.”
Napoleone e Maria Luisa si persero nelle risate e poiché le lacrime sono ben vicine alla risata, questa, per ringraziarlo di tante attenzioni amabili, si gettò dolcemente tra le sue braccia. Era allora vicino alla finestra e la folla raccolta nel cortile delle Tuileries vide da fuori questo movimento. Subito i battiti di mani e le acclamazioni furono spinti dal popolo, che, senza dubbio, attribuiva a questa scena interna alcuni motivi di alta politica. Allo stesso tempo, un leggero rumore si fece sentire dal lato della porta, rimasta aperta e la testa del principe di Neufchâtel si lasciò vedere.
“Berthier, puoi entrare”, gli disse l’Imperatore. E andando incontro a lui, lo prese per mano e lo presentò all’imperatrice dicendo: “Vedi, mia buona Luise; è lui che a Vienna ha avuto l’idea, vedendo le tue lacrime, di far trasportare qui tutto ciò che vedi, per cercare di addolcire un po’ i rimorsi. Berthier merita che tu lo ricompensi, quindi bacialo, mia cara amica.” A questa proposta inaspettata, Marie-Louise, naturalmente timida, chinò la testa senza dire una parola. Berthier, trattenuto più dal rispetto che dalle convenienze dell’etichetta, rimaneva inchiodato al suo posto.
“Andiamo, mio caro – disse allegramente l’Imperatore toccando leggermente il gomito del principe – non vorreste obbedirmi per la prima volta?”
“Sire… “
“Dai, andiamo, dovrebbe essere già fatto.” Poi, stringendo la mano, aggiunse con voce commossa: “Baciala, mio vecchio amico…”