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13 OTTOBRE 1815: MURAT VIENE FUCILATO

13 OTTOBRE 1815: MURAT VIENE FUCILATO

Quando

Ottobre 13, 2022    
12:00 am

Event Type

Murat, con sei barche, armi e circa duecento uomini, lasciò Ajaccio il 28 settembre 1815 per riconquistare il suo regno. 

I venti sono favorevoli. Una buona brezza li spinge verso lo stretto di Bonifacio. Ma il 29 settembre, alle sei di sera, la flottiglia, in rotta verso la Calabria, è presa da un violento tumulto che la spinge verso le coste della Sardegna. Tutti, con difficoltà, si raggruppano sull’isola deserta di Tavolara.

Dopo le riparazioni dei danni causati dalla tempesta, Murat e i suoi uomini riprendono la strada della costa calabrese e la sera del 6 sono a una quindicina di chilometri da Paola, a 300 km a sud di Napoli. Barbara, il capitano della flottiglia, volendo farli passare per pescatori, ordinò di spegnere tutti i fuochi a bordo, ma durante la notte sorse una nuova tempesta che disperse tutte le imbarcazioni.

All’alba, Murat ha con sé solo altre due barche. Ordinò un ormeggio nella rada di San Lucido, chiese al patrono Cecconi di andare alla ricerca delle altre barche e al capo battaglione Ottaviani di recarsi a terra per sondare lo stato d’animo dei suoi abitanti. Mentre Ottaviani, riconosciuto, viene gettato in prigione e interrogato da uomini del re Ferdinando (non parlerà), il boss Cecconi, invece, ritrova la barca del comandante del battaglione Courrand e la conduce in rada di San Lucido.

Il generale Franceschetti, diffidente della fedeltà di Courrand, ordina a Barbara di prenderlo in rimorchio. Le tre barche ripartono in mare aperto e il 7 ottobre, verso mezzanotte, si trovano all’altezza di Amantea. Si avvicinano alla riva, stanno per sbarcare. Fu allora che Courrand tagliò di nascosto il cavo che lo collegava alla barca di Barbara, e, tornò indietro, dicendo ai soldati presenti a bordo che Murat gli aveva dato l’ordine di tornare in Corsica.

Il generale Franceschetti, consapevole della debolezza della spedizione, propose di non tentare una discesa sulle coste della Calabria e di fare subito rotta verso Trieste. Murat ammette di avere pochi uomini. “Andiamo a Trieste; accetto l’asilo che il governo austriaco mi offre nei suoi Stati”.

Il capitano Barbara si oppone, sostenendo che non ci sono a bordo acqua e viveri sufficienti per intraprendere una simile traversata. Inoltre, è pericoloso entrare nell’Adriatico con una struttura di tale stazza. Propose quindi a Murat di imbarcarsi sull’altra nave, la Volteggiante. Murat sa che Barbara è un ottimo marinaio, grande conoscitore delle coste delle due Calabrie e dell’Adriatico. Ordinò di gettare in mare un sacco contenente 500 copie di una proclamazione rivolta agli abitanti di Napoli.

Il capitano Barbara deve imbarcarsi sulla Volteggiante, prendere il comando e dirigersi verso Pizzo, ma prima del trasbordo, chiede a Murat i passaporti che gli alleati gli avevano consegnato. Murat rifiuta. Barbara risponde che comanda a bordo e dichiara che non sbarcherà a Pizzo, finché non avrà ritirato i passaporti.

Murat si rivolge vivamente a Franceschetti e gli dice: “Lo sentite, generale? Si rifiutano di obbedirmi. Non abbiamo, tuttavia, per prendere terra, un minuto da perdere. Beh, sbarcherò io stesso. Sarete al mio fianco, amico mio, e anche voi signori, vero? Sono convinto che il mio ricordo non sia morto nel cuore dei napoletani. Ho fatto loro troppo bene per questo e i popoli sono raramente ingrati. Non è possibile che la mia voce su questa costa non risvegli echi. Ecco l’ora, signori; non c’è più da indietreggiare né da ritirarsi. Andiamo, tutti in piedi e in grande uniforme”. E nel frattempo la barca di Murat si dirige rapidamente verso il porto di Pizzo.

Ѐ l’8 ottobre, mezzogiorno. Mentre Giovanni Multedo e Pasqualini stanno per saltare sulla riva, Murat, con un gesto imperioso, li ferma. ” Tocca a me, camminare per primo!” e si lancia sulla spiaggia, seguito da ventotto ufficiali, sottufficiali, soldati e tre domestici. Appena l’imbarcazione di Murat entra nel porto, una folla curiosa ingombra la riva. Questa folla gli è ostile, perché la Calabria è stata duramente colpita dalla repressione e dal brigantaggio, sotto il regno di Murat.

Murat viene rapidamente catturato e rinchiuso nel piccolo castello del porto. Nella prigione, viene privato di tutto ciò che possiede. Passaporti, soldi, brillanti e una lettera di credito di 60.000 franchi. Fu presa anche una copia della proclamazione della quale, per prudenza, le altre copie erano state gettate in mare. Gli è permesso scrivere alla sua famiglia.

Il 13 ottobre 1815, prima di ogni giudizio, il re Ferdinando, su consiglio dell’ambasciatore britannico, emise un decreto con il quale “al condannato sarà concessa solo mezz’ora per ricevere l’aiuto della religione”. Murat si rifiutò di comparire davanti alla corte. Venne pronunciata rapidamente la pena di morte, senza un avvocato, senza che Murat fosse ascoltato. Gli viene concessa solo mezz’ora per ricevere un prete.

Il generale Nunziante viene a prendere il condannato. Trova Murat pronto come per una parata. “Sei in ritardo di cinque minuti -dice- è tutto pronto? Addio, generale, addio. Raccomando la mia lettera alla mia cara Carolina.”

Di fronte al plotone d’esecuzione, Murat rifiuta di essere bendato e affronta i fucili. Egli guarda la sua mano semiaperta, poi si rivolge ai soldati: “Amici miei, sapete che comanderò il fuoco: mirate al petto, salvate il viso.” Si posiziona a sei passi dai soldati, quasi appoggiato a un muro.

Murat rimase in piedi. Sei soldati non hanno sparato, gli altri tre hanno sparato sopra la testa. Murat ringrazia i soldati, guarda di nuovo la mano semiaperta e comanda il fuoco. Solo tre proiettili lo colpiscono, ma uno attraversa il cuore. 

Gioacchino Murat, il più grande cavaliere di tutti i tempi, Gioacchino Murat, cognato dell’Imperatore, maresciallo dell’Impero, grande ammiraglio dell’Impero, granduca di Berg e di Kleve, principe francese e re di Napoli, Gioacchino Murat è morto. Nella sua mano, l’orologio che non ha lasciato cadere e su quest’orologio, il ritratto di Carolina, sua moglie…