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28 novembre – LA BERESINA (II)

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28 novembre - LA BERESINA (II)

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Novembre 28, 2022    
12:00 am

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La Beresina. Percepita erroneamente come una sconfitta francese, è così definita da Jean Tulard: “Beresina, vittoria francese 27-28 novembre 1812. Gli stereotipi hanno la vita dura. La parola “Beresina” continua ad essere usata in Francia per indicare un disastro, una catastrofe. Al contrario, la battaglia della Beresina fu, in condizioni difficili, una vittoria francese illustrata dall’azione eroica del generale Éblé. […] Napoleone e la maggior parte delle sue forze sono sfuggiti alla manovra di Čitchagov e Wittgenstein che lasciano molti uomini sul campo. Questo successo non sarebbe stato possibile senza l’eroismo del generale Éblé e dei suoi pontonieri”.

Durante una conferenza stampa, Jean Tulard è arrivato a ricordare che al termine di questa battaglia, per sanzionarlo del suo fallimento contro i francesi, lo zar aveva licenziato l’ammiraglio Tchitchagov.

• Leggiamo “la relazione circostanziata della campagna di Russia nel 1812” di Eugène Labaume, ex ufficiale d’ordinanza del principe Eugenio:

Dopo essere andato da Napoleone verso Zembin, lasciò dietro di sé questa immensa folla che, posta sull’altra riva della Beresina, presentava l’immagine animata, ma spaventosa, di quelle ombre infelici che, secondo la Bibbia, vagano sulle rive dello Stige e si affollano in tumulto. Ci avvicinammo alla barca mortale. La neve cadeva a grandi fiocchi; le colline, le foreste non presentavano più che masse biancastre che si perdevano nell’atmosfera umida: si vedeva distintamente solo il funesto fiume mezzo ghiacciato, e l’acqua torbida e nerastra serpeggiava nella pianura attraverso i cubetti di ghiaccio che le sue onde scrivevano.

Anche se c’erano due ponti, uno per le auto e l’altro riservato ai fanti, la folla era così grande e gli approcci così pericolosi che, arrivati vicino alla Beresina, gli uomini riuniti in massa non potevano più muoversi. Nonostante queste difficoltà, le persone a piedi, a forza di perseveranza, riuscivano a salvarsi. Verso le otto del mattino, dopo che il ponte riservato alle auto e ai cavalli si era rotto, l’artiglieria avanzò verso l’altro ponte, cercando di forzare il passaggio.

Allora s’avviò una lotta terribile tra fanti e cavalieri, molti perirono sgozzandosi; un numero ancora maggiore fu soffocato verso la testa del ponte e i cadaveri degli uomini e dei cavalli ostruirono a tal punto i viali che per avvicinarsi al fiume bisognava salire sul corpo di coloro che erano stati schiacciati. C’erano ancora quelli che respiravano e lottavano contro gli orrori della morte. Per rialzarsi, afferravano quelli che salivano su di loro, ma questi, per uscire, li respingevano con violenza e li calpestavano. Mentre si combatteva con accanimento, la moltitudine che seguiva come un’onda infuriata inghiottiva incessantemente nuove vittime.

Il duca di Belluno, lasciato sulla riva sinistra, si mise in posizione sulle alture di Weselowo con le due divisioni Girard e Daendels, per coprire il passaggio e proteggerlo in mezzo a questa terribile confusione, contro il corpo di Wittgenstein, la cui avanguardia era apparsa il giorno prima. Tuttavia, il generale Partouneaux, dopo aver respinto gli attacchi di Platow e Tschikagow, partì da Borisov alle tre del pomeriggio con la terza brigata per opporsi ai russi che avanzavano in colonne; richiamò la prima e la seconda brigata rimaste a Borisov, comandate dai generali Blamont e Lecamus.

Giunto a Staroi-Borisow, invece di prendere il cammino di Weselowo, prese quello di Studentzy. Questo errore portò la divisione in mezzo al corpo di Wittgenstein. Sebbene avesse solo tremila uomini, per tutta la serata sostenne un combattimento che durò più di quattro ore, in cui furono feriti i generali Blamont e Delaitre. In mezzo alla neve e con un tempo orribile, le nostre truppe si misero in piazza, rimasero in piedi tutta la notte senza avere nulla da mangiare e non volevano fare fuoco per indicare la loro posizione.

Questa situazione crudele durò fino all’indomani, quando la divisione si vide circondata dal corpo intero di Wittgenstein, forte di circa quarantacinquemila uomini; allora, persa la speranza di fuggire, si arrese, avendo solo milleduecento uomini e due deboli squadroni: tanto gli orrori della fame, il rigore del freddo e il fuoco del nemico avevano diminuito il numero di questi coraggiosi.

Borisov fu evacuato, i tre eserciti russi si unirono e lo stesso giorno (28 novembre) verso le otto del mattino, il duca di Belluno fu attaccato sulla sinistra da Wittgenstein, insieme al duca di Reggio sulla riva destra da Tschikagow, che, accorgendosi di essere stato male informato, riunì tutte le sue forze e venne su di noi a poca distanza dai ponti di Weselowo. Il caso si avviò quando il duca di Reggio, che non poteva mai ottenere la vittoria senza pagarla con il sangue, fu ferito dal principio dell’azione: costretto a lasciare il suo corpo, lasciò il comando al duca di Elchingen, che cedette il suo al duca di Treviso.

Dopo che il duca di Elchingen ha rianimato le nostre truppe, l’azione ricominciò, contro l’esercito della Moldavia, con nuovo ardore. La divisione delle corazzate agli ordini del generale Doumerc fece una carica brillante quando il conte di Claparède, alla testa della legione della Vistola, si impegnò nei boschi per spingere il centro del nemico. Questi coraggiosi corazzieri (4º, 7º e 14º reggimento), estenuati dall’eccesso di fatica e privazioni di ogni genere, fecero tuttavia prodigi di valore, sfondarono quadrati, presero pezzi di cannone e fecero da tre a quattromila prigionieri, che le nostre miserie non ci permisero di conservare, poiché nella nostra crudele situazione combattevamo non per ottenere la vittoria, ma solo per la nostra esistenza e l’onore delle nostre armi.

Nonostante il coraggio dei nostri soldati e gli sforzi dei loro capi, gli eserciti russi riuniti premevano vivamente il nono corpo, che formava la retroguardia; si sentì il suono del cannone e subito dopo si vide sulla cima delle colline vicine il fuoco delle batterie nemiche: non si dubitò più che il terreno dove si trovavano migliaia di uomini disarmati, malati, feriti, donne e bambini sarebbe diventato un campo di battaglia.

La posizione che occupava il duca di Belluno, per opporsi ai progressi di Wittgenstein, non era vantaggiosa: sebbene la sua destra fosse appoggiata al fiume, la sua sinistra non poteva estendersi fino a un grande legno che avrebbe potuto coprirla; per legarla a questo legno, fu posta una brigata di cavalleria comandata dal conte Fournier. Questo intrepido fece due cariche luminose che arrestarono il corpo di Wittgenstein, mentre una batteria della guardia proteggeva la destra del duca di Belluno. Il valore eroico delle truppe e il coraggio dei generali Girard, Damasco e Fournier, i quali, sebbene feriti, non abbandonarono il campo di battaglia, insegnarono ai nemici che la vittoria non ci tradisce mai senza essere stati a lungo indecisi. Infine il coraggio fu costretto a cedere al numero e il nono corpo, sopraffatto da tante forze riunite, si vide costretto a lasciare la sua posizione.

Nel calore di questa lotta, diverse palle di cannone, sparate dal nemico, volarono sulla testa di questa folla infelice, che da tre giorni si affollava attorno al ponte della Beresina; anche dei proiettili scoppiarono in mezzo ad essa: allora il terrore e la disperazione si impadronirono di tutte le anime. L’istinto di conservazione turbò gli spiriti. Queste donne, questi bambini, sfuggiti a tanti disastri, sembravano essere stati conservati solo per sperimentare una morte ancora più deplorevole. Si vedevano, uscendo dalla macchina, correre a baciare le ginocchia del primo venuto e, piangendo, lo pregavano di farli passare sull’altro lato. I malati e i feriti, seduti sul tronco di un albero, o sostenuti su stampelle, con un occhio inquieto, cercavano dappertutto un amico che potesse soccorrerli, ma la loro voce si perdeva nell’aria: ognuno pensava solo alla propria esistenza.

Al quarto corpo, M. di Labarrière, uomo rispettabile e di grande amenità di carattere. La sua età avanzata, e soprattutto il suo temperamento debole, lo avevano reso, da tempo, inidoneo a camminare e, come tanti altri, si trovava adagiato su una slitta. Per caso, avendo visto un ufficiale dei suoi amici, anche se faticava a sostenersi, andò da lui e, gettandosi tra le braccia, si raccomandò alla sua umanità. Questo ufficiale era ferito, ma troppo generoso per rifiutare i soccorsi, gli promise di non lasciarlo più. Allora i due si abbracciarono strettamente e andarono verso il ponte con quella sicurezza e quel coraggio che provano due amici, quando hanno ancora la consolazione di morire insieme. Appoggiandosi l’uno sull’altro, si persero nella folla e da allora non si sono più visti.

Infine i russi, sempre rafforzati da nuove truppe, arrivarono in massa e cacciarono davanti a loro la divisione polacca del generale Girard, che fino ad allora li aveva contenuti. Alla vista del nemico, quelli che non erano ancora passati, mescolandosi con i polacchi, si precipitarono verso il ponte: l’artiglieria, i bagagli, i cavalieri, i fanti, ciascuno voleva attraversare il primo. Il più forte gettava nell’acqua il più debole che gli impediva di avanzare e camminava sui corpi dei malati e dei feriti che si trovavano sul suo cammino. Diverse centinaia di uomini rimasero schiacciati sotto le ruote dei cannoni; altri, sperando di salvarsi a nuoto, si congelarono in mezzo al fiume o perirono appoggiandosi su pezzi di ghiaccio che affondarono.

La divisione Girard, con la forza delle armi, si fece strada attraverso gli ostacoli che potevano ritardare la sua marcia e, salendo su questa montagna di cadaveri che ostruivano la strada, raggiunse l’altra riva dove i russi l’avrebbero forse seguita, se in quel momento non ci fossimo affrettati a bruciare il ponte.

Allora gli infelici sulla Beresina non ebbero più intorno a loro che l’immagine della morte più orribile. Per cercare di sottrarsi, se ne vedevano ancora alcuni che cercavano di attraversare il ponte, anche quando era tutto infiammato: ma, nel mezzo della loro corsa, annegavano, per evitare di essere bruciati. Infine i russi si impadronirono del campo di battaglia, le nostre truppe si ritirarono, il passaggio cessò e al fragore più spaventoso seguì il più triste silenzio.