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4 MAGGIO 1814: NAPOLEONE SBARCA SULL’ISOLA D’ELBA

4 MAGGIO 1814: NAPOLEONE SBARCA SULL'ISOLA D'ELBA

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Maggio 4, 2023    
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Il 3 maggio 1814 la fregata HMS Undaunted, partita il 29 aprile da Saint-Raphaël, si ancorò all’ingresso del porto di Porto-Ferrajo, Isola d’Elba. In quest’isola nessuno sa cosa sia successo in Francia. Il generale Drouot sbarcò, ebbe un incontro con il generale Dalesme, comandante dell’isola e gli insegnò la sovranità di Napoleone.

La mattina del 4 maggio, Napoleone sbarca furtivamente dall’altra parte del golfo, ispeziona rapidamente l’isola e risale a bordo. Fu solo alle due del pomeriggio che sbarcò ufficialmente nel suo nuovo regno.

• Leggiamo André Pons del’Hérault, “Ricordi e aneddoti dell’isola d’Elba”, Ed. Plon, Aliment et Cie, Parigi, 1897

L’imperatore Napoleone lasciò la fregata inglese per fare il suo ingresso a Porto Ferrajo. Gli avevano preparato la grande canoa le cui panchine erano coperte di bellissimi tappeti. Non appena la scialuppa si spinse al largo, la fregata salutò l’imperatore con ventuno colpi di cannone e tre acclamazioni di onde ripetute dai marinai inglesi disposti simmetricamente sulle verghe. I canottieri risposero alle tre hourras con altre tre hourras. Durante la durata delle hourras, l’Imperatore rimase con la testa scoperta. Tutti gli edifici in rada salutarono con l’artiglieria e le onde.

La piazza di Porto Ferrajo associava tutte le sue batterie e le sue campane a tutti questi saluti. Questo secondo clamore mi affliggeva. Sembrava che mi dicessero che i destini erano compiuti, che l’imperatore Napoleone era completamente perduto per la Francia. Il mio cuore era stretto. Non vedevo più l’uomo del potere assoluto. Era l’eroe che mi appariva in tutta la sua nazionalità, perché l’imperatore Napoleone era veramente nazionale […].

Arrivato al porto, l’Imperatore fu visibilmente stupito da ciò che vedeva, e non cercò di nascondere il suo stupore. Si scoprì di nuovo alle prime grida popolari. Così approdò al piccolo molo di sbarco. Mise piede a terra. Tutte le autorità civili e militari aspettavano. Anche il clero aspettava; era venuto a ricevere processionalmente l’Unto del Signore.

Il sindaco si avvicinò all’imperatore, lo salutò profondamente, e gli presentò le chiavi della città deposte in una ciotola d’argento. L’Imperatore prese queste chiavi, le tenne per un momento, e le porse al sindaco rivolgendogli queste onorevoli parole: “Riprendetele, signor sindaco, sono io che ve le affido; e non posso confidarle meglio.” Il che era vero, perché era un degno magistrato. M. il sindaco non aveva potuto pronunciare una sola parola. Non era riuscito nemmeno a leggere alcune parole che aveva scritto. Allora M. il vicario generale si fece avanti per ricevere l’Imperatore sotto il baldacchino: l’Imperatore vi prese posto. Il corteo si mise in marcia.

L’Imperatore era come il giorno prima, in veste di cacciatore della guardia imperiale, ma poi portava la stella della Legione d’Onore, la Corona di ferro, la Croce della riunione, e aveva ripreso il suo cappellino storico. Il generale Bertrand e il generale Drouot seguirono immediatamente l’imperatore. Il generale Bertrand era decorato con il grande cordone; il generale Drouot portava solo la croce di comandante. L’Imperatore aveva testimoniato il desiderio che il generale Dalesme non lasciasse il generale Bertrand e il generale Drouot.

Poi arrivarono i commissari della coalizione: il generale austriaco Koller e il colonnello inglese Campbell, il conte Klam e il tenente Hasting, aggiunti ai commissari. Il tesoriere della corona, Peyrusse, e il colonnello dei polacchi, Germanovski, marciarono insieme. I due pellicciai del palazzo, che fungevano da prefetti del palazzo, Deschamps e Baillon, il medico Foureau de Beauregard, il chirurgo Emery, il farmacista Gatti, facevano gruppo e completavano gli ufficiali della casa dell’Imperatore.

Lo stato maggiore della fregata inglese formava un corpo particolare. Le autorità civili e militari gli avevano ceduto il passo, il che era una cortesia fuori luogo. La guardia nazionale e la truppa di linea fiancheggiavano la siepe. La guardia nazionale si era davvero superata; la sua tenuta non lasciava nulla a desiderare. 

Il corteo procedeva lentamente; la folla lo pressava e lo fermava continuamente. Si voleva vedere l’Imperatore da vicino. Era la volontà generale, ma ogni volontà particolare si sostituiva alla volontà generale: da lì, lotte, ondulazioni popolari, soste forzate. L’Imperatore sembrava rassegnato. Non era lo stesso per il vicario generale: impaziente della sua natura, tremava visibilmente; se fosse dipeso da lui, avrebbe fatto ricorso al pugilato per farsi aprire il passaggio. La chiesa era adornata come nei giorni di grande festa. Al centro della navata c’era un inginocchiatoio preparato per l’imperatore, coperto da un tappeto di velluto cremisi. Due ciambellani erano stati improvvisati per assistere l’Imperatore durante la cerimonia; lo condussero al suo posto e rimasero al suo fianco. La popolazione aveva invaso la chiesa. Il vicario generale intonò l’inno di sant’Ambrogio: Te Deum Laudamus, e poi diede la benedizione del Santissimo Sacramento.

Era naturale che tutti gli occhi si rivolgessero all’Imperatore. Gli era stato consegnato un libro di chiesa: leggeva. Forse sarei più sincero se dicessi che fingeva di leggere. Eppure per due volte credetti al fruscio delle sue labbra che pregava, anzi che pregava con fervore. Non voltò mai la testa per guardare cosa stava succedendo intorno a lui. I ciambellani improvvisati avevano un compito difficile da svolgere per il loro noviziato. Inizialmente non sapevano come dire all’Imperatore di sedersi, alzarsi, inginocchiarsi, e il loro disagio di solito si manifestava in ogni modo. L’Imperatore cercava di alleviarli prevenendoli; i ruoli erano quasi invertiti. Si notava che l’Imperatore rispondeva alla loro attenzione con estrema affabilità.

Questa cerimonia aveva un carattere particolare. Questa non poteva essere puramente religiosa nei confronti dell’imperatore Napoleone… Per rendere sinceramente grazie a Dio per averlo fatto passare dal più grande Impero del mondo al più piccolo trono della terra, sarebbe stato necessario che la sventura lo avesse già santificato, e certamente non era ancora a questo stato di beatitudine. Senza dubbio l’imperatore Napoleone era religioso: venti circostanze della sua vita lo hanno dimostrato. Ma da lì all’abnegazione assoluta c’è l’immensità da attraversare. L’Imperatore, senza avere nulla di troppo mondano o di troppo devoto, si disegnava con maestà, e piaceva a tutti i fedeli che lo avevano accompagnato nel tempio di Dio. L’imperatore, sempre padrone di lui, sembrava calmo, ma non l’aveva impassibile, e la sua fisionomia tradiva la sua emozione.
Certamente l’insieme del clero non era nel suo piatto ordinario, e, quasi turbato, brancolava per sapere che cosa doveva fare. Il vicario generale si sbagliò due volte. Sembrava che l’imperatore abbagliasse i sacerdoti. Nessuno era insensibile: tutti erano raccolti.

Ma era soprattutto la popolazione porto-ferrajaise a mostrarsi toccata; sembrava assistere a preghiere di famiglia. La chiesa era ingombra; le voci cantanti erano numerose. Ai seguenti due versetti dell’inno ambrosiano: “Vi supplichiamo dunque di soccorrere i vostri servi che avete riscattato dal vostro sangue prezioso… È in voi, Signore, che ho posto la mia speranza; non sarò mai confuso”, il popolo, secondo l’usanza d’Italia, si mise in ginocchio, con il capo abbassato, e l’intonazione delle sue parole cantate ebbe un fervore veramente estremo. Il popolo credeva che questi due versetti fossero preghiere più particolari per l’Imperatore. Il momento della benedizione fu un momento la cui solennità santa dominò il popolo porto ferrajai. Era la popolazione di Porto Ferrajo che, naturalmente, aveva invaso per prima la chiesa, e quindi solo di lei posso parlare, per quanto riguarda ciò che è accaduto in chiesa.

Il corteo, nello stesso cerimoniale, uscì dalla chiesa, e accompagnò l’Imperatore al Municipio, dove doveva alloggiare. Il comune aveva preso l’iniziativa per andare a riceverlo. Lasciando il Daino, l’Imperatore si trovò circondato da tutte le autorità, di tutte le notabilità, e nel momento in cui entrò nel Municipio, fu salutato più volte con accese acclamazioni di tenerezza popolare.

Si credeva che la giornata fosse finita per l’Imperatore, ma era solo cominciata. Egli diede subito udienza.

Il generale Dalesme presentò tutti i francesi che vollero essere presentati; non tutti lo vollero. Gli adoratori del sole nascente giravano la testa per non vedere il sole tramontare. Le parole che l’Imperatore rivolse ai francesi furono tutte notevolmente improntate al patriottismo. Disse al comandante del genio Flandrin, che gli rivolgeva qualche parola di rammarico: “La patria prima di tutto, mio caro comandante, e allora non ci sbagliamo mai!”

Il sottoprefetto presentò i comuni, i comuni presentarono le loro notabilità. L’Imperatore trovò parole per tutti in generale, per ciascuno in particolare. Certamente aveva letto il Viaggio di Arsenne Thiébault, perché parlava proprio dei vari comuni dell’Isola d’Elba, ed è facile capire quanto questo sorprendesse gli elbesi. Ebbe anche l’effetto di passare in rassegna tutte le località: diceva molte cose in poche parole. Oltre al Viaggio di Arsenne Thiébault, l’Imperatore aveva ricevuto note ufficiali per tutto ciò che poteva essergli utile sapere sull’Isola d’Elba. Poi faceva le sue prime domande in modo da conoscere subito i personaggi con cui aveva a che fare; allora prendeva il linguaggio che meglio si adattava ai suoi interlocutori.

Anche gli Elbesi non riuscivano a credere alla conoscenza positiva che l’Imperatore aveva dei loro bisogni generali e particolari. Egli rifiutò più volte delle spiegazioni che si volevano dare relativamente alle rivolte: era un grande punto di quiete per i rivoltosi. Ma il sindaco di Marciana lo fece allontanare per un momento dal suo sistema di oblio del passato. Questo sindaco, più per imbarazzo che per calcolo, cercò di giustificare i crimini commessi, e l’imperatore che lo interrompeva gli disse: “Mi fareste credere che siete tra i criminali, se aveste il coraggio di cantare le loro lodi. La legge ha voluto gettare un velo sul passato; lasciatemi imitare la legge, e siate felici del mio rispetto per essa.” L’Imperatore voleva sedurre; sedusse. Tutti erano incantati.

Il presidente del tribunale presentò la magistratura; l’Imperatore interrogò in particolare il procuratore imperiale, Mr. Fontaine, uomo integro, illuminato e franco. Venne la presentazione dei sacerdoti. Il vicario generale salutò. L’arciprete di Capoliveri portò la parola; lo si diceva il sacerdote più istruito dell’isola. Non fu il più abile. Scivolò quasi sull’arrivo provvidenziale dell’Imperatore. La sua arringa portò subito sul malessere del clero, sui bisogni delle chiese e sull’urgenza di venire subito in loro soccorso. Il pubblico non fu favorevole all’oratore. Quando l’oratore sacro ebbe terminato il suo discorso profano, l’Imperatore, che lo aveva ascoltato con molta pazienza, passò al crogiolo purificatorio le esagerazioni di miseria di cui gli era stata appena fatta l’enumerazione.

Distrusse queste esagerazioni una ad una, e quando ebbe finito, rivolgendosi in particolare all’arciprete, gli ripeté ridendo questo proverbio italiano: “Dominus vobiscum non è mai morto di fame.” Poi, riprendendo il tono serio, l’Imperatore disse al clero: “State tranquilli, signori, provvederò ai bisogni del culto”, e lo congedò.

Distrusse queste esagerazioni una ad una, e quando ebbe finito, rivolgendosi in particolare all’arciprete, gli ripeté ridendo questo proverbio italiano: “Dominus vobiscum non è mai morto di fame.” Poi, riprendendo il tono serio, l’Imperatore disse al clero: “State tranquilli, signori, provvederò ai bisogni del culto”, e lo congedò.

Si credeva che l’imperatore fosse esausto: parlò subito di andare a cavallo. Ma fu fermato da una circostanza che mi intrigò allora, che mi intriga sempre, dalla ragione che non posso spiegare. C’erano ancora visitatori nella casa comune diventata palazzo imperiale. L’Imperatore stava per uscire, quando il pellicciaio del palazzo Baillon gli presentò due personaggi che chiedevano di parlargli, e l’Imperatore guidò in una stanza vicina al salone dove li tenne per circa un quarto d’ora. Questi due personaggi, arrivati nel pomeriggio, partirono appena lasciarono l’Imperatore, e non ho mai saputo chi fossero. Non assicuro che fosse un mistero, ma sembrava misterioso, e tanto più che fu dimostrato a tutti che l’Imperatore non aveva voluto parlare con intenzione in presenza di testimoni.

L’Imperatore visitò minuziosamente la piazza, rientrò e ricevette poca gente in serata. Fu con il colonnello Vincent che si intrattenne di più. La città fu brillantemente illuminata, il povero fu almeno altrettanto generoso quanto il ricco per partecipare all’illuminazione.